CONVERSIONE

Alcuni anni dopo la sua professione, avvenuta il 22 gennaio 106, Giacinta si ammalò e, impaurita, chiese di confessarsi. Padre Antonio Bianchetti accolse le sue confidenze e le prescrisse come penitenza la disciplina, da farsi pubblicamente nel refettorio appena si fosse ristabilita: la monaca obbedì, ma tornò “più punta che compunta” alla vita precedente.

Tuttavia la malattia si ripresentò in maniera più grave, al punto da gettare la donna in una crisi profonda che aprì il suo cuore ad un autentico incontro con il Signore e infine alla conversione, tramite un sincero mutamento interiore cui corrispose un drastico mutamento nella sua condotta di vita.

Giacinta provvide così a spogliare l’appartamento, situato presso la cosiddetta Torre Damiata del monastero, di tutte le suppellettili preziose di cui lo aveva adornato all’indomani del suo ingresso in monastero e, trasformandolo in una Capanna del Paradiso – come lei stessa lo denominerà – vi pose un letto, una grossa croce, un quadro dell’Hecce Homo e un armadietto a muro in cui custodiva i suoi libri.

Ulteriore segno tangibile della sua nuova condotta di vita fu il mutamento di nome: dopo la conversione smise di firmarsi smise di firmarsi “Jacinta Marescotta” per preferire “Sor Jacinta de Maria Vergine”.

La conversione di Giacinta, che per quindici anni era stata conforme al modello della “monaca nobile”, stravolse la comunità, mettendo in crisi il rigido sistema di professe e converse su cui poggiava la vita monastica dell’epoca: le consorelle le davano dell’ipocrita e della stolta, restando scandalizzate dal comportamento di Giacinta che, comportandosi da conversa, si prodigava per le monache ammalate e in difficoltà.

Anche la città di Viterbo fu coinvolta dal mutamento interiore di Giacinta, che visse la clausura non come ostacolo, ma come condizione di vita assunta per sperimentare con pienezza la relazione con Dio e con il prossimo, grazie a una rete di collaboratori che la tenevano al corrente delle situazioni di bisogno e di povertà presenti in città. In Giacinta, modello di carità operosa, è evidente l’intimo rapporto tra la vita di fede e l’intensa attività sociale svolta a favore dei poveri e degli emarginati, ai quali era solita distribuire i proventi che la sua famiglia si era impegnata ad elargire dal momento del suo ingresso in monastero.

La continuità e l’unità di preghiera e azione di Giacinta sono particolarmente visibili nelle sue due fondazioni, nelle quali si rende un’anticipatrice della partecipazione attiva dei laici alla vita e alla missione della Chiesa: la Confraternita dei Sacconi, dedita alla cura e all’assistenza del malati – per la quale si avvalse della collaborazione di Francesco Pacini, un soldato dai costumi dissoluti convertito dalla donna e divenuto nel tempo suo braccio destro nel mondo – e la Congregazione degli Oblati di Maria Vergine per l’assistenza delle persone anziane e inabili al lavoro.

Giacinta fu una donna profondamente inserita nel contesto ecclesiale contemporaneo, assumendo un ruolo di pacificatrice sia all’interno della comunità monastica che nei contrasti che turbavano la vita sociale di Viterbo, ma anche di promotrice della diffusione del culto del SS. Sacramento in città.

Grazie a lei, infatti, il monastero – dove veniva organizzata l’esposizione eucaristica ogni giovedì e durante l’ottava del Corpus Domini – divenne un centro di intensa vita eucaristica, come ci viene testimoniato dalla notizia della processione eucaristica che ogni terza domenica del mese partiva dalla cattedrale di San Lorenzo per giungere a San Bernardino.

Giacinta viene infine ricordata per la sua forte devozione alla Beata Vergine Maria e in particolare alla Madonna della Quercia, presso cui inviava numerose persone in pellegrinaggio e per la pratica della Via Crucis, che ogni venerdì era solita vivere caricandosi sulle spalle una pesante croce lignea che trasportava lungo tutto l’orto del monastero.

Un legame umano e spirituale profondo unisce da secoli i monasteri di San Bernardino a Viterbo e di Santa Maria delle Grazie a Farnese. Il libro dedicato a suor Francesca Farnese, scritto da Andrea Nicoletti e pubblicato a Roma nel 1660, racconta che suor Giacinta Marescotti e suor Francesca – fondatrice delle “monache farnesiane” il 9 maggio 1618 – erano legate da un rapporto di amicizia e di stima profondo. Tra le due donne esisteva già un lontano legame familiare, dovuto al fatto che la nobildonna Camilla Savelli, cugina di suor Giacinta e poi fondatrice del monastero delle oblate agostiniane di Santa Maria dei Sette Dolori a Roma, aveva sposato Pierfrancesco Farnese, duca di Latera nonché fratello di suor Francesca.

Nel 1631 un avvenimento fondamentale segna il percorso umano e spirituale di Francesca e Giacinta: Caterina Savelli, principessa di Albano e sorella di Camilla, aveva chiesto a Francesca di fondare un nuovo monastero nella sua città e le due donne, durante il viaggio per raggiungere Albano fecero tappa a Viterbo per alloggiare al monastero San Bernardino. Qui, scrive Nicoletti, vivea in quei dì suor Giacinta Marescotti, vergine molto qualificata, sì per la nobiltà della famiglia, come per la stretta parentela, che avea con le principali casate di Roma, e particolarmente con Farnesi.

Per le due donne questa fu senz’altro l’occasione per instaurare uno scambio spirituale intenso e profondo, onde sentendo l’una dell’altra il buon odore delle virtù, si erano talmente affezionate insieme, benché distanti di luogo, che desideravano grandemente di conoscersi.

Giacinta, infatti, conoscendo da tempo la fama di cui godevano Francesca e la sua comunità, invano aveva più volte fatto richiesta di trasferimento presso il monastero di Farnese.

La stima e l’affetto che le due donne nutrivano l’una per l’altra ci vengono di nuovo testimoniati dal biografo di suor Francesca, che scrive: fu sì grande l’allegrezza spirituale di ambedue, che per quel poco di tempo che quivi Suor Francesca si trattenne, parve loro di godere le dolcezze del paradiso.

Oggi la bellezza e la profondità dell’amicizia spirituale tra Giacinta e Francesca vivono un nuovo slancio con la presenza delle sorelle clarisse di Farnese a Viterbo per la rivitalizzazione del monastero San Bernardino e la valorizzazione della figura di S. Giacinta. Il mancato trasferimento di Giacinta a Farnese assume dunque un significato profetico: quattro secoli dopo, il legame tra queste due grandi donne continua a vivere, assumendo nuove forme nella testimonianza umana e spirituale delle loro figlie.

Sfinita per le penitenze e i digiuni, Giacinta si ammalò gravemente e fu costretta ad alloggiare presso i locali dell’infermeria del monastero, dove morì il 30 gennaio 1640. Amata profondamente dal popolo, le cronache del tempo raccontano che le monache furono costrette a rivestire ben tre volte il corpo della consorella perché tutte i poveri della città accorrevano in chiesa per tagliuzzare i pezzetti del suo abito e avere così una reliquia della loro benefattrice.

Tuttavia, Giacinta fu sepolta senza cassa, dinanzi all’altare maggiore della chiesa, nella fossa comune, accanto alla sorella Innocenza, distinta dalle altre monache soltanto per una targhetta appostale al braccio: «Suor Giacinta Marescotti».

L’urna contente i resti del corpo di Santa Giacinta si trova oggi all’interno della chiesa del monastero San Bernardino, dove fu collocata in occasione della sua beatificazione, avvenuta il 1° settembre 1726 durante il pontificato di Benedetto XIII.

Canonizzata il 16 maggio 1807 da Pio VII, il culto di santa Giacinta è associato anche alla cosiddetta Pianta di Santa Giacinta (Ruscus hypoglossum, detto anche ruscolo maggiore o erba bonifica o bislingua): un giorno, ritenendo di soffrire troppo poco sul terreno gelato, Giacinta chiese al Signore un’ulteriore penitenza che le ricordasse la Passione e così dal suolo spuntò una piantina che aveva su ogni foglia una spina.

La santità di Giacinta è ancora oggi modello di valori fondamentali per la nostra società e la nostra Chiesa, come donna di pace nelle dispute che colpivano Viterbo, come donna di carità  nell’amore e nel sostegno donato ai più poveri e bisognosi, come donna di preghiera nell’incontro personale con Dio, fonte e culmine di tutta la sua vita e di tutto il suo operare.